Salvezza senza bellezza

Il soggettivismo e il relativismo hanno ormai indotto a credere che anche la religione sia questione di gusti personali. Non sembra ci sia nulla di male nel fatto che ognuno possa credere in ciò che vuole e, anche fra i cattolici praticanti, che si dissenta da alcuni aspetti del magistero o del Credo della Chiesa e anzi, per alcuni è perfino un diritto. Né si tratta solo di un fenomeno legato ai laici, tutt’altro. Così, nella situazione attuale, è ormai pacifico che la Chiesa viva una situazione di drammatica confusione. La mancanza di un unico punto di convergenza, che tutti lamentano, è dovuto proprio al diritto che tutti si arrogano, e cui nessuno vuole rinunciare, di creare una sua propria “versione” della fede. Può essere autentica una fede personalizzata, su misura? Un conto è l’infinita rifrazione che il Mistero della Redenzione opera in ciascuno, un altro è l’esclusività di un modo di pensare che ci separa e oppone dagli stessi correligionari. L’unità del corpo della Chiesa è ridotta in frantumi. Il tradizionalismo avrebbe, in questo panorama, lo stesso valore del progressismo, o di altri movimenti, con i quali condivide la certezza di pensare giusto, di essere, letteralmente, orto-dosso, ritenendo tutti gli altri nell’errore. Eppure, ciò che sta alla base della tradizione è ben più di un cumulo di rituali barocchi e devozioni bigotte. Ciò che è in gioco è proprio l’autenticità della Fede.

La pietra di scandalo è, senz’altro, il Concilio Vaticano II. Fra pre e post, pro e contro, continuità e rottura, secondo alcuni è l’origine di tutti mali, per altri l’unica salvezza possibile.

Per ragioni anagrafiche non ho vissuto gli anni di quell’evento e del cambiamento che ne è seguito, ma non mi faccio illusioni circa la situazione della Chiesa in precedenza. Un cambiamento, quindi, era necessario. Tuttavia, approfondendo i fatti a mente fredda, mi sto rendendo sempre più conto della drastica rivoluzione che è stata fatta, la cui portata non esiterei a definire devastante.

Le recentissime parole di papa Benedetto XVI, testimoniano di come il Concilio sia stato vissuto con compiaciuta e consapevole volontà di rottura col passato, volta a far tabula rasa di tutto ciò che rappresentasse la tradizione secolare del cattolicesimo. Nuova pastorale, nuovo ecumenismo, nuova catechesi, nuova liturgia….nuova religione? Non si è trattato solo del tanto declamato aggiornamento della Chiesa per porla al passo con le esigenze della vita moderna, non solo di un mutamento di immagine che rendesse più familiare e accattivante il volto dell’istituzione e del suo Annuncio, piuttosto, a me sembra di vedere un radicale mutamento nelle premesse della fede, nei mezzi per comunicarla e nei fini da raggiungere.

I) Ciò che mi inquieta maggiormente è la visione dell’uomo che sembra emergere da questo quadro, una concezione profondamente permeata da idee di radice illuminista, che hanno trovato largo sviluppo nell’odierna società tecnologica. Parlo di un uomo considerato nella sola componente razionale, capace di dominare qualsiasi aspetto della realtà, dal micro al macrocosmo. Un dominio che si dispiega nelle applicazioni scientifiche in ogni campo possibile della vita. Se è vero che “il sonno della ragione genera mostri”, oggi si potrebbe ben dire che anche “la luce della sola ragione genera mostri”. E lo possiamo constatare bene poiché se infiniti vantaggi ci sono offerti nel campo della salute, dell’alimentazione, delle comunicazioni, è altresì vero che il pianeta è ridotto a una discarica senza controllo. La ragione, infatti, non agisce per sé stessa, ma è uno strumento che tende a risolvere esigenze che razionali non sono, ma appartengono agli istinti primari, secondari, alle emozioni e ai sentimenti. Ci si rende poco conto di come sensi ed emozioni vengono messi in secondo piano, e di come essi siano in tal modo molto più difficili da controllare, da parte nostra, e molto più facilmente plagiabili e manipolabili da chi tiene le redini della società. Anche la componente corporea è problematica, poiché se da un lato l’uomo viene visto come puro pensiero, quasi astratto, dall’altro il corpo viene venerato come cosa a sé, oggetto del desiderio privo di individualità, oppure viene condannato come l’origine del peccato, secondo una visione religiosa distorta; in entrambe i casi con un’evidente concezione dissociata delle molteplici parti costitutive dell’uomo. E’ evidente come l’approccio razionalistico alla vita sia solo una bandiera per giustificare ben altri comportamenti che, di razionale, hanno ben poco.

Ora, questa premessa vuole mettere in risalto la realtà che l’uomo, per quanto possa cambiare esigenze, idee, visioni del mondo, cultura e struttura socio-politica, è e rimane sempre lo stesso, fatto di spirito, anima e corpo, secondo una concezione antica e sempre valida, fortemente sentita proprio dal cristianesimo, che ha nell’Incarnazione del Verbo il suo dogma fondante.

Eppure, proprio il modo di presentare il Vangelo, da parte della Chiesa del post-Concilio, sembra calchi la mano sulla sola componente razionale dell’individuo, con un’accentuazione dell’aspetto verbale, che si traduce nell’uso della lingua nazionale nella liturgia, nell’enfasi data all’omelia, nella visibilità totale, nel ritenere il vecchio rito una specie di magia, nell’eliminazione degli elementi che contribuiscono a dare sacralità ai riti, i quali, pertanto, facilmente scadono nella prosaicità e nella banalità. Ecco nascere il mito del cristianesimo adulto, ormai libero da ogni contaminazione con pratiche sospette di superstizione, un cristianesimo prêt-à-porter, fortemente centrato su un’etica di fratellanza umanitaria, di azione sociale.

Anziché salvaguardare una visione dell’uomo completa e integra, la Chiesa sembra aver posto la priorità alla componente razionale proprio in perfetta sintonia con lo spirito dei tempi, non per redimerli ma, al contrario, per esserne inghiottita. Che valore hanno, ancora, la componente simbolica e quella sensoriale? Lungi dal rimpiangere il pietismo sentimentalista di certa fede ottocentesca, credo che la riduzione della fede a una convinzione o a un’azione morale sia un male ancora peggiore, poichè facilmente preda dell’ideologismo come del pacifismo.

chiesa di S.Giacomo, Foligno

2) E’ stato inevitabile fare qualche riferimento alla liturgia riformata, poiché nel culto pubblico e collettivo della Chiesa si esprimono appieno le priorità e gli obiettivi che essa propone. Non sto mettendo in discussione ciò che essa definisce essere la liturgia, il quale, sulla carta, rimane aderente al magistero di sempre. E’ nei fatti che si rivela tutta la distanza fra la teoria e la pratica liturgica, è lì che la lex credendi diventa inconciliabile con la lex orandi. La nuova disposizione liturgica, con l’altare rivolto al popolo, il tabernacolo e la croce decentrati, l’assemblea disposta a semicerchio, rispecchia una considerevole attenzione alla presenza della comunità, ma con evidente discapito della presenza divina. Con il grido di battaglia dell’actuosa partecipatio, s’è dimenticato a cosa veramente i fedeli devono partecipare, e cioè essere preparati alla Comunione con Dio. Tale partecipazione è tutt’altro da un cantare, rispondere, leggere, suonare, battere la mani, stringere le mani…tutte cose che distraggono totalmente dall’unica vera azione della Messa: il sacrificio che Cristo stesso compie sull’altare per noi. Sembra piuttosto che sia l’assemblea che “fa” l’eucarestia, e che senza di essa la Messa non abbia  senso e valore.

Mi chiedo, inoltre, se davvero i riformatori, e loro convinti seguaci, pensano che io mi senta più attivo solo perché il prete parla in italiano, più coinvolto perché vedo un laico che legge le letture, più partecipe solo perché altri suonano la chitarra e, al contrario, mi senta escluso perché il sacerdote è rivolto verso Dio o messo da parte perché un coro canta brani polifonici. A conti fatti, la partecipazione del fedele comune alla liturgia antica o a quella nuova è quasi identica. Le vere discrepanze stanno nel diverso coinvolgimento delle facoltà umane e nell’estetica liturgica.

Se, come detto, l’approccio attuale è di tipo catechetico, basato sull’esposizione logica e discorsiva dei contenuti della fede (molto simile al protestantesimo), la liturgia antica sosteneva una partecipazione non razionale, ma emotivo-sensoriale (più affine all’ortodossia orientale) con un largo uso del canto liturgico, di luci, odori, gestualità che coinvolgono fortemente il corpo, anche dei fedeli (con inchini, genuflessioni inginocchiamenti). Non dev’essere un caso che proprio tutti i movimenti dei fedeli siano stati depennati, riducendoli alla posizione in piedi, seduta e al breve stare in ginocchio al momento della consacrazione, mentre è stato aggiunto lo scambio della pace, un gesto di indistinta fratellanza. Inoltre, la percezione del rito antico nel suo insieme rimane qualcosa di fortemente estraneo alla quotidianità, facente leva sull’intuizione e i sensi spirituali. Questo è un modo di concepire la liturgia non solo profondamente rispettoso dell’integrità umana, ma consapevole che, per avvicinare i fedeli a Dio, i mezzi razionali sono del tutto inadeguati. Si obietterà che anche nel nuovo rito ci sono incenso, canti e silenzi. Eppure, ho sempre la sensazione che rimangano come qualcosa di accessorio, superfluo rispetto all’intima coerenza strutturale che essi assumono nel rito antico. Il canto d’ingresso del nuovo rito, per esempio, non è paragonabile al valore dell’Introito nel vecchio.

3) Le diverse concezioni liturgiche non possono non riflettersi anche nell’arredo interno delle chiese. Il rito “tridentino”, non basandosi sulla logica razionale, richiede necessariamente un apparato di oggetti e arredi, quasi sempre di pregevole fattura, i quali facciano presa sui sensi e sull’immaginario. Parlo dei numerosi candelieri, reliquiari, decori metallici, nonché la croce posta sull’altare, il conopeo sul tabernacolo, le cartegloria, le lampade e i lampadari pendenti dal soffitto, balaustre e cancelli che separano il presbiterio dalla navata, il pulpito…elementi, appartenenti all’artigianato, che contraddistinguono l’ambiente come luogo di culto e lo differenziano dagli spazi della vita normale. Tutto deve contribuire a parlare del mistero di Dio, anche al di fuori della liturgia, sebbene sia durante la celebrazione che essi assumono il loro pieno valore. Le strutture di recente costruzione, al contrario, sono di un’essenzialità raggelante. La nobile semplicità della liturgia ha fatto sparire ogni cosa lasciando, su un altare che se non sembra un tavolino da cucina assume forme assurde, due candeline da un lato e un vasetto di fiori dall’altro e una croce astile di fianco. Spot aeroportuali abbacinano una desolante aula bianca in cui il tabernacolo è in attesa di collocazione certa, una statua della Vergine sembra fuori posto in ogni luogo, mentre solo le panche vengono accuratamente pianificate così che l’assemblea possa vedere tutto da qualsiasi lato. Le chiese moderne sono luoghi senza vita quando non vi si svolge la liturgia, incapaci di comunicare la presenza divina che vi abita, ed in questo rispecchiano perfettamente lo spirito dei nostri tempi totalmente secolarizzati. Le chiese contemporanee sono sale per conferenze.

4) L’uomo è ancora capace di comunicare il divino? Il dubbio è talmente fondato che alcuni preferiscono glissare sulla risposta. Recentemente, un professore di una università pontificia ha affermato che non ha senso pensare che la musica possa essere sacra, che abbia delle caratteristiche “sacre” in sé, ma che sarebbe opportuno chiamarla, piuttosto, musica per la liturgia. Con tale dichiarazione si nega all’uomo la capacità di esprimere e comunicare l’esperienza del sacro. Se la musica, e l’arte in genere, non possono avere un carattere sacro, se cioè non sono l’espressione di un’esperienza spirituale e non riescono a renderla in chi ne usufruisce, ne consegue che qualsiasi cosa può essere usata nel contesto liturgico, senza distinzioni. La canzonetta alla chitarra vale quanto il gregoriano, Giombini quanto Palestrina. Fortunatamente l’assurdità disumana di questa concezione si scontra con l’evidenza del nostro sentimento di riverenza, meraviglia e trasporto ogniqualvolta ascoltiamo un brano polifonico o visitiamo una cattedrale medievale. Il sentimento del sacro è connaturale all’uomo, è il richiamo al trascendente che induce stupore e timore verso ciò che ci supera, ed è possibile non solo attraverso la natura, creazione diretta di Dio, ma anche attraverso l’opera dell’uomo, che riesce a produrlo, trasmetterlo e recepirlo, in particolare per mezzo dell’arte.

Il ruolo dell’arte, nella liturgia antica, è strutturale. L’arte, fra le cose che contraddistinguono la specie umana dagli altri esseri viventi, è di certo la più ammirevole, anche in relazione alla gratuità della capacità creativa, così affine al potere creatore di Dio. L’arte, come manipolazione della realtà, produce bellezza, che sarà tanto più pura quanto più s’avvicina alla Fonte stessa della bellezza. Essa rivela l’ordine sovrannaturale nascosto nel cosmo naturale. Il cristianesimo ha, nei secoli, enormemente attinto a tale capacità umana di creare una bellezza capace di evocare il trascendente sotto le spoglie della materia, di attrarre all’Invisibile attraverso lo stimolo dei sensi corporei. E’ nella natura dell’uomo la possibilità di farlo e di comprenderlo, non per mezzo della logica razionale, ma appunto con la perizia manuale e le percezioni fisiche. E’ evidente l’affinità strettissima fra la liturgia e l’arte, o meglio, di come la liturgia si sia forgiata su un’arte ispirata dal mistero di Cristo. Il canto gregoriano, oltre a evocare istintivamente una sacralità propria, è la colonna portante del rito antico, non un intermezzo sonoro fra una parola e l’altra. E così per la pittura, la scultura, l’arte tessile, orafa… il tutto riunito per creare un tutto armonico e pregno di sacralità, un full immersion che strappi l’uomo alla banalità e gli faccia pregustare un riflesso della gloria di Dio.

Molti obiettano che l’estetica liturgica sfocia nell’estetismo, che lo strappo alla quotidianità sfocia nell’alienazione. Costoro dimenticano che è la quotidianità ad essere alienata, mentre è nella liturgia che si gode della vita autentica; hanno perso la fede nel Paradiso, e preferiscono la concretezza della realtà alla speranza della visione di Dio, segno evidente dell’affermarsi dell’immanentismo sulla trascendenza, della secolarizzazione sulla fede. Il loro sguardo è solo umano, la loro prospettiva è orizzontale e rivolta al mero presente; hanno perso, o non hanno mai conosciuto, la visione soprannaturale sulla vita, scambiandola per un attivismo sociale e umanitario. Pensano alla Chiesa di oggi e del futuro, ma non al Regno di Dio. Come può la liturgia parlare del mondo e dimenticare Dio? Come Dio può comunicare all’uomo se non attraverso la liturgia che Egli stesso ci ha donato, ma che è anche opera dell’uomo? Quando, se non nella liturgia, l’uomo può attingere a un bagliore dell’amore divino, mettendo da parte sé stesso e la sua routine? Come, se non attraverso l’arte che parla di Dio, è possibile sciogliere i cuori più induriti, le anime più fosche? La sete di bellezza spinge milioni di turisti a visitare le chiese e i capolavori nati per la liturgia, ma le nostre Messe riformate sono prive di ogni qualità artistica, come mai? Si mette gregoriano in filo diffusione, per creare “atmosfera”, o si eseguono concerti con le Messe dei grandi compositori, perchè non li si canta più durante la liturgia? Perché non è più possibile comporre Messe al livello di Josquin o Da Victoria?

L’arte, opera dell’uomo, è anche strumento nelle mani di Dio e coloro che denigrano la possibilità di usare e sfruttare la bellezza artistica nella liturgia recano una grave offesa ai talenti di Dio e alla dignità dell’uomo, quello stesso uomo cui pretendono di portare la Buona Notizia di una salvezza senza bellezza.

E di offese, continuano a vedersene molte, quando strutture senza senso vengono approvate come chiese, quando le sacre immagini vengono ridotte a provocazioni, quando il canto sacro è ridotto a sciatteria o sperimentalismo. Che cosa si può pensare del Cubo di Fuksas, consacrato non nel 1968, nel boom del rinnovamento, ma nel 2008? Che cosa dire delle illustrazioni del nuovo lezionario entrato in vigore? E della Via Crucis di Frank Stella? Mi sembra evidente che l’oculata scelta delle forme artistiche per il culto rispecchi un indirizzo molto preciso, favorevole a un’arte di marca intellettualistica e razionalistica per l’architettura, totalmente astratta dalla concretezza umana, e di stampo materico informale per la scultura e la pittura, in pratica senza contenuti visto che se ne possono applicare di ogni tipo. Quest’arte parla del divino? Dà un’immediata idea di sacralità? Che cosa comunica dell’amore del Padre e della missione del Figlio? E’ ancora possibile chiamare arte un esercizio concettuale, che a priori non si prefigge l’espressione della bellezza, malata di agnosticismo e spiritualismo?

Questa è la realtà del cattolicesimo del XXI sec.

Chi pensa ancora che l’applicazione del Concilio sia cosa buona e che queste sono le “eccezioni” da evitare, è bene che cominci ad aprire gli occhi e a esaminare che cosa la CEI approva come luoghi di culto e come arte “sacra”, specchio indiscutibile dell’immagine che la Chiesa vuole dare di sé nel post-concilio. Una Chiesa che si è accostata così tanto al mondo da essersi confusa con esso, fino a perdere la propria identità e la specificità del suo messaggio di redenzione. Una Chiesa all’avanguardia, che adotta i linguaggi di un’arte che non è sentita come tale da nessuno, estranei alla sensibilità dei fedeli che non li riconoscono e, talvolta, li rigettano. Proprio ora che non si può prescindere dalla partecipazione attiva dei fedeli, vengono loro proposte cose incomprensibili e stranianti, dagli effetti spirituali nefasti.

5) In base a tali premesse, ognuno può tracciare le fila del discorso. Personalmente, credo che la Chiesa sia nel mondo, ma non del mondo, perché il Regno di Dio non è di questo mondo. Credo anche che debba tutelare l’integrità della persona umana, non solo con una predicazione-azione etica e morale, ma con una testimonianza incessante di una vita rinnovata in Cristo, che risvegli la dimensione spirituale dell’esistenza, che è l’unico, vero modo di vivere che possa dirsi umano.

In tale prospettiva l’arte assume il ruolo di certificare le verità annunciate, e di attrarre, con l’evidenza della sua bellezza, l’uomo tutto intero, anima e corpo. Florenskij definiva l’iconostasi (lo schermo ricoperto di icone che separa il presbiterio dalla navata nelle chiese ortodosse) la “gruccia della spiritualità”, poiché supplisce alla nostra zoppicante visione spirituale, rivelando agli occhi del corpo ciò che è velato in quelli dello spirito. Non una barriera che nasconde, dunque, ma un muro che illustra i divini misteri che si svolgono dietro. I cicli d’affreschi e le pale d’altare, in occidente, assolvevano ancora a quello stesso scopo, supportando la preghiera della Chiesa militante e ponendola in comunione con quella trionfante, nel rendere gloria a Dio.

Tutto ciò, che con mille discorsi e buoni propositi, si cerca invano di applicare al nuovo rito, lo vedo attuarsi con pienezza nel rito antico della Chiesa, il quale esprime con dignità, rispetto e timore la lode e la preghiera dell’uomo verso Dio, e con maestà, grandezza e nobiltà l’ineffabilità del Suo mistero rivelato. Se, ancora oggi, è possibile decoro e splendore nel celebrare col nuovo messale, ciò viene dall’immissione di elementi tratti dal modus celebrandi dell’antico, ma non sarà mai possibile fino in fondo: i presupposti con cui è stato promulgato e di cui è pregno il nuovo rito sono antitetici rispetto alla religio dell’antico, a meno di non snaturarne le fondamenta.

Non dev’essere un caso che papa Benedetto XVI stia pazientemente difendendo sia la dignità della persona umana, in tutte le sue dimensioni, sia la bellezza della liturgia; non si tratta, difatti, di settori distinti, poiché nei riti della Chiesa si rivela pienamente la concezione dell’uomo e quella di Dio.