CARTE SCOPERTE

L’ing. don Giuseppe Russo, responsabile del Servizio Nazionale per l’Edilizia di Culto della C.E.I., espone, in questo breve saggio, il modus operandi ufficiale della Chiesa italiana circa la progettazione delle nuove chiese.

Mi permetto di glossarlo, con il grande piacere di veder confermato anche dalle parole ciò che era evidente nei fatti.


PROGETTARE NUOVE CHIESE: I PROGETTI-PILOTA DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

I “progetti-pilota” rappresentano tangibilmente l’impegno che la CEI sta profondendo da svariato tempo, all’interno del suo intelligente “progetto culturale” avviato negli anni Novanta, per elevare la qualità delle nuove chiese.

La sfida lanciata dal mondo della cultura e dell’architettura è stata prontamente accolta dalla Chiesa italiana, che ha fatto ricorso allo strumento più comune ed efficace per ottenere performance progettuali elevate: il concorso. La formula scelta, del concorso a inviti, ha permesso il coinvolgimento di architetti già impegnati nell’attività progettuale di opere grandi o complesse. Si è trattato non sempre di progettisti caratterizzati da una lunga esperienza professionale, ma spesso anche di giovani architetti, in luce per i convincenti risultati ottenuti.

Sotto il profilo del metodo, è ormai acquisito che l’architetto debba opportunamente costituire una vera e propria equipe di progettazione, da lui guidata e coordinata, composta anche da un artista e da un liturgista. Architettura e arte devono integrarsi  sin dall’inizio, secondo l’idea e l’ispirazione originaria.

Fa piacere constatare che ci si è resi conto del fatto che, da un secolo, ognuna delle arti maggiori ha imboccato una strada autonoma e del tutto indipendente l’una dall’altra, mirante a raggiungere la purezza assoluta. L’organica progettazione, che vedeva  pittura e scultura compenetrarsi nell’architettura in un insieme armonioso, è svanita con l’affacciarsi delle avanguardie dell’inizio del ‘9oo. Una simile scissione trova ancora vasta applicazione in edifici refrattari a ogni tipo di decorazione, in sculture senza forma, in dipinti astrattizzanti, cose del tutto antitetiche alle esigenze di un edificio di culto. Ripensare ad una collaborazione fra le arti non può essere che un segnale positivo, ma quali artisti e in quale architettura?

L’architetto sceglie, anche sentita la committenza, l’artista o gli artisti che maggiormente condividono con lui una comune sensibilità e le cui capacità e tecniche espressive possono meglio entrare in tensione armonica con l’architettura proposta. II liturgista è fondamentale, giacché è un dato fortunatamente irrinunciabile la consapevolezza che una chiesa si progetti non a partire dall’architettura stessa, ma dalla liturgia, cioè dallo spazio sacro, inteso quale spazio non solo “funzionale” al culto, ma addirittura capace di incarnarlo e rappresentarlo “visibilmente” sempre, in ogni momento; anche fuori dalla celebrazione;

La riconoscibilità del luogo di culto, cristiano e cattolico, è uno dei presupposti fondamentali dell’architettura sacra, in quanto espressione manifesta della fede. Essa “parla”, in ogni suo aspetto, di ciò in cui si crede. Quante, fra le chiese contemporanee, possono fregiarsi di tale caratteristica? Personalemente, mi sono abituato a riconoscere una chiesa moderna quando vedo qualcosa di incomprensibile, incatalogabile come casa o scuola o teatro….Se poi dovessi dedurre la  fede da simili strutture…..

Uno spazio che trova la sua “naturale” configurazione modellata sulla bipolarità essenziale tra luoghi liturgici principali, da un lato, e assemblea, dall’altro. È da questo spazio, ogni volta sempre “uguale” e sempre inevitabilmente e vitalmente “creato” nella sua originalità, che nasce il progetto di una chiesa, la sua architettura, la sua forma, la sua linea e trae forza la sua capacità espressiva. Questa “sconvolgente” verità non è, purtroppo, ancora accolta diffusamente da tutti gli architetti, anche quelli più noti, dotati di una singolare capacità creativa e che hanno prodotto negli ultimi anni non poche realizzazioni nell’edilizia di culto.

La cosa veramente sconvolgente è si continui ad approvare progetti inadatti, manchevoli ed anche brutti. Non si dovrebbe imparare dagli sbagli? Errare humanum est, sed perseverare….

È il caso di ribadire con forza che l’iniziativa CEI dei progetti pilota non pretende né intende individuare o costruire dei nuovi modelli architettonici di chiese. Ciò non sarebbe possibile né sarebbe ammissibile! Un tale atteggiamento, qualora si verificasse, potrebbe essere tacciato, e giustamente, di presunzione e di ristrettezza di vedute.

Finalmente, ecco la dichiarazione chiara e priva di vergogna di coma la CEI dia carta bianca agli architetti, lasciando loro la possibilità di progettare edifici senza interferire in alcun modo sulle loro idee estetiche. Ciò viene considerata una virtù addirittura necessaria, poichè il pericolo di apparire retrogradi, reazionari, presuntuosi, indietro coi tempi, cozza troppo con l’immagine della nuova Chiesa avveniristica e  futurista. Ma, penso io, è normale che  la Chiesa, sia pure nella figura del liturgista, non abbia nulla da consigliare che non riguardi altro che la partecipazione attiva dell’assemblea?  Questa affermazione non è in contraddizione con quella precedente, circa la potenzialità della  struttura architettonica di incarnare i contenuti della fede? Inoltre, la volontà di non imporre nuovi modelli architettonici non implica l’uso dei vecchi, tutt’altro! Qui l’arbitrio la fa da padrone in ogni circostanza.

Così come, al contrario, valutiamo impropria la posizione di chi continua a sostenere, forse nostalgicamente, che le chiese di una volta erano più belle o, addirittura, più chiese!

A quanto pare i nostagici si annidano nella stragrande maggioranza dei fedeli comuni che reputano semplicemente brutte le nuove chiese. Ci sarà un motivo…  Questa affermazione, per altro, è un’implicita ammissione dell’alterità delle nuove strutture rispetto a quelle tradizionali, a quelle che tutti siamo abituati a riconoscere come chiese. Continuo a chiedermi perchè tanta ostinazione nell’imporre edifici che sanno essere alieni e alienanti. Dapprima si lamenta la scarsa qualità dei risultati ma poi, guai a cambiare linea di condotta!

Non ha senso e non è metodologicamente corretto giudicare la bellezza di un’opera contemporanea stabilendo un confronto con l’architettura del passato; se mai, tale confronto serve a riconoscere i differenti canoni estetici e culturali delle epoche diverse. Ciò vale anche per l’arte. Sarebbe come accostare un dipinto di un autore del Cinquecento e uno di un artista di oggi e concludere che il primo gode di una maggiore bellezza. Sono due “prodotti” culturali diversi e infinitamente distanti. Il linguaggio espressivo ha conosciuto e conosce una evoluzione (per qualcuno “involuzione”!) enorme.

E’ indubbio che la bellezza del gotico è assai diversa da quella del barocco. Eppure entrambe avevano in comune l’ideale di un canone di bellezza ben preciso. L’arte contemporanea semplicemente non ha un’idea di bellezza, anzi la bellezza è stata proprio accantonata, come qualcosa di accessorio, un orpello inutile. Mi sembra chiaro che i risultati non possano che seguire questa tendenza che, se non ricerca il bello, esprimerà necessariamente il brutto. E il brutto, come osserva Martin Mosebach, nel sacro corrisponde al demoniaco.

Occorre prenderne atto e cercare di entrare in dialogo con gli artisti e gli architetti di oggi, chiedendo loro di mettersi in ascolto per rappresentare al meglio i nostri sentimenti, valori, ideali di vita e di fede.

E’ curioso parlare degli artisti come di una categoria esterna alla Chiesa, dando per scontato che non siano cristiani e forse nemmeno credenti. A loro si deve spiegare cosa sia la fede e strapparne un’espressione decente. Nel cattolicesimo non ci sono più artisti? O forse, la disperata ricerca di un’opera griffata porta di necessità a rincorrere gli artisti di grido e le archistar, di solito fedeli del proprio egocentrismo?

D’altra parte, anche sul piano liturgico vi è costantemente l’esigenza di un confronto. I liturgisti stessi sono impegnati nella continua ricerca di come lo spazio sacro possa efficacemente essere “organizzato”, raggiungendo una performance adatta alla sua natura. Si tratta di proporre “schemi” liturgici che siano nel contempo rispettosi della Tradizione, della prassi celebrativa e delle indicazioni normative della Chiesa e anche innovativi, capaci, cioè, di esprimere meglio il contenuto, la dinamicità intrinseca dell’atto celebrativo. Questo lavoro di approfondimento e di ricerca non è semplice né scevro da possibili errori o eccessi. C’è da rendere visibile la centralità del Mistero che si celebra e c’è da rendere concretamente possibile che l’assemblea esprima facilmente la propria vocazione di popolo radunato per celebrare attivamente e dinamicamente la liturgia; occorre far sì che l’altare sia il vero punto focale dello spazio celebrativo, ma anche dare tutta la dovuta importanza (in sé e in relazione all’altare) all’ambone, quale luogo della Parola; e si potrebbe proseguire nell’indicare altre numerose questioni da approfondire, fra loro correlate, ma appartenenti a livelli gerarchici diversi, quanto a funzione e significato liturgici. Pensare e proporre

Tutto ciò rivela la macchinosità del lavoro dei neo-liturgisti  della riforma. Pensare e proporre, cercare di far capire, elaborare modelli, trovare soluzioni, sfidando rischi ed errori….ecco la Messa costruita a tavolino, frutto solo della cerebralità, dell’intellettualismo, dell’artificio. Così è stato riformato il Messale, così gli si costruisce la casa. Pare chiaro, anche, di come brancolino nel buio, i liturgisti, alla disperata ricerca di soluzioni adeguate, cercando di conciliare l’inconciliabile. Tutto sia sperimentato, tranne le soluzioni usate, inspiegabilmente, per secoli…. Ma la liturgia, è divina o umana?

…una soluzione che renda “viva” la liturgia celebrata e faccia chiaramente percepire la natura tragica e gloriosa dell’evento che si celebra è la sfida, ardua e affascinante, che non bisogna smettere di cogliere nella progettazione di una nuova chiesa, che è liturgia permanentemente in atto ed è per l’uomo.

Bene, la liturgia è per l’uomo. Il culto a Dio? Sorpassato. La sua azione tramite i sacramanti? Sostituita da quella umana. La sua manifestazione? Implicita nell’assemblea.

Frédéric Debuyst, in un suo saggio dedicato a Romano Guardini, scrive di lui e della liturgia così: «Guardini non si stanca di ripetere che la liturgia riguarda l’uomo concreto, tutto quanto l’uomo, e che essa va oltre le considerazioni nozionali, o puramente storiche oppure “cerimoniali”, per condurci a realtà che sono sempre in atto e riguardano simultaneamente le persone, le cose e i luoghi: il Mistero pasquale, il Mistero della Chiesa, il Mistero della Creazione. L’economia sacramentale dei segni si dispiega tutta intera lungo questa vasta gamma».

Da questo saggio mi sembra chiara la contraddizione fra le  esigenze della liturgia, di concezione fin troppo antropocentrica, e i mezzi proposti per realizzarle. Un tale tipo di approccio, inoltre, dà l’idea di una continua variabilità, mutabilità del rito, che si adatta a seconda dei tempi e delle circostanze, sempre in evoluzione e senza rapporto con ciò che l’ha preceduto e lo seguirà. Mi chiedo che segno di eternità può dare una simile concezione, che idea della trascendenza comunica qualcosa che si fa e si disfa a piacimento.