Il tesoro sotto il letto.

La prima volta di una qualsiasi esperienza rimane sempre impressa in modo particolare. E piace riandare con la memoria a quelle sensazioni, quelle emozioni nuove. Sì, anche per la Messa “in latino” c’è stata una prima volta, come per chiunque sia nato dopo la riforma. C’è sempre stata una curiosità strana verso questa Messa di cui si sapeva solo che il prete dava le spalle ed era, appunto, in latino.

Negli anni universitari ero venuto a diretta conoscenza, a Roma, dei riti ortodossi, ora al Russicum ora nella piccola stanza adibita a cappella della comunità russa, in via Palestro. Più tardi scoprii anche la chiesa greco-cattolica di S.Atanasio. Ore e ore in piedi, fra canti dalla melodia sconosciuta, nuvole di incenso e movimenti coreografici. Ore di altissima spiritualità, sebbene la lingua fosse incomprensibile.

Un primo contatto indiretto, con il vecchio rito nostrano, fu l’incontro con un’anziana signora che stava pulendo l’altare di una piccola pieve di campagna. Un altare vecchio, coram Deo. Io e un mio amico (allora seminarista) chiediamo come sia sopravvissuto un simile cimelio e ne nasce una piccola chiaccherata sul rito antico. La signora lo definisce così, in perfetto marchigiano: “Un misteru grossu che non se putìa capi’!” (Un mistero grande da non potersi capire, ndr). Ho sempre pensato che queste poche parole, pronunciate da una persona semplice, che di latino probabilmente non ha mai saputo nulla, siano una delle più belle e complete definizioni della liturgia preconciliare. Mistero, trascendenza, ineffabilità, apertura verso un Oltre infinito: la donna aveva colto tutto il senso della Messa.

Nel frattempo avevo iniziato a frequentare la Fraternità della SS.Vergine Maria, a Bagnoregio. Quasi ogni domenica facevo (e faccio) 30 km di strada per assistere ad una Messa in italiano, sì, ma con tutto l’ordinario e parti del proprio cantati in gregoriano. Altare rivolto a Oriente, Canone romano…un’oasi di spiritualità cattolica. Ho impiegatoo un po’ di tempo prima di capire le differenze fra la Messa antica e quella celebrata dai Padri e tutt’ora ritengo sia la migliore liturgia celebrata con il Novus Ordo.

Pochi anni dopo, con un altro mio amico, tentiamo l’esperimento del rito tridentino. Chiesa di Gesù e Maria al Corso, a Roma. Una Messa bassa. La mia impressione è stata straniante: “è un’altra religione”, ho pensato. Non meno diversa dei riti orientali e bizantini che avevo frequentato. Il sacerdote che si muove da un lato all’altro dell’altare, gli inchini, le genuflessioni, il chierico che si industria a compiere azioni non meno meticolose, coordinazione, ordine, quasi disciplina. Il serrato botta e risposta dell’inizio (il salmo 42) si rarefà sempre più fino a sconfinare nel silenzio. Nel complesso, un’impressione difficile da definire, di profonda alterità, sì, ma col senno di poi anche come qualcosa di perfettibile, magari inadatto ai “tempi moderni”.

Ancora due anni prima di approdare in una minuscola chiesa, mimetizzata fra i palazzi, un portone fra altri portoni. E’  S.Gregorio dei Muratori, ove la Fraternità S.Pietro cantava la Messa delle 10:30 prima di trasferirsi alla SS. Trinità dei pellegrini. Lì, la folgorazione è stata totale. Il canto gregoriano non solo introduceva e accompagnava la Messa ma ne era l’ossatura, il corpo stesso. Senza nemmeno un messalino per poter seguire, ero incantato da una gestualità che qualcuno definirebbe ingessata e innaturale, fors’anche stucchevole per tutte le reverenze, i baci, le simmetrie. Ero anche stupito dalla recita in segreto di certe preghiere che si concludono sempre con quel “per omnia saecula saeculorum“, la qual cosa mi ricordava il sacerdote ortodosso che recita la dossologia finale ad alta voce. In quella Messa ho visto tutte le “incrostazioni” di secoli di liturgia, le origini in comune a tutti i riti, il medioevo, il barocco, l’ottocento stratificati nella medesima struttura; 2000 anni di storia della Chiesa si sono dispiegati davanti ai miei occhi con la devozione che ogni periodo vi aveva apportato, aggiungendo o modificando, ma sempre nell’uso del medesimo rito. Finalmente assistevo a una Messa romana che non aveva nulla a che invidiare alla solennità dei riti bizantini, ma che era loro sorella, diversa, ma figlia della stessa Fede. Lì, in una Messa cattolica romana, finalmente si manifestava una Bellezza piena dell’espressione del divino.

E così, dopo aver idealmente fatto il giro del mondo delle antiche  liturgie cristiane, ho scoperto che il tesoro che stavo cercando era proprio  sotto il mio letto, quello della Chiesa cattolica in cui sono nato e cresciuto. Pur nell’incredibile fascino delle liturgie orientali, in esse mi sono sempre sentito un intruso imbarazzato, un pesce fuor d’acqua. Nel momento in cui ho assistito al rito latino finalmente mi sono sentito a casa. E’ un tesoro che sento mio, vicino a me, perchè è parte della mia cultura e storia, anzi: nel silenzio delle preghiere e nell’eco dei canti esso ha contribuito a plasmare quella cultura e quella storia. Un tesoro, soprattutto, la cui bellezza e il cui valore sono veramente inestimabili.  La sua scoperta ha reso dolorosamente evidente l’entità dei cambiamenti operati dalla riforma liturgica degli anni ’60.


Come ogni cosa, infatti, esso è tanto più fragile quanto più è prezioso. Se dipinti, sculture, suppellettili e paramenti rimangono a testimoniare il loro antico uso, seppure in forme musealizzate, se l’arredo liturgico sopravvive talvolta alla immotivata furia dell’adeguamento, se il canto gregoriano è ascoltabile, seppure nella forma snaturata del concerto e del CD, ciò che davvero è stato accantonato è l’insieme coerente che teneva insieme e dava un senso a tutto ciò. E tale collante, che è il Messale di S.Pio V, è qualcosa di spiritualmente, teologicamente e formalmente imparagonabile alle comuni celebrazioni parrocchiali, nelle quali, de facto, è pressochè impossibile scorgere la continuità con una Tradizione millenaria che risale non solo ad un papa dell’alto medioevo, ma agli stessi Apostoli.