Icona, Chiesa, modernità.

Ancora piacevolmente colpito dal buon esito del Terzo Convegno nazionale degli Iconografi, vorrei fissare a caldo una delle tematiche che, senza volerlo, hanno indirettamente attraversato più relazioni, segno di una problematica comunemente avvertita e sempre crescente man mano che la realtà dell’iconografia in Italia si accresce e consolida.

Il ruolo dell’icona nella Chiesa e il posto che la Chiesa potrebbe assegnare agli iconografi.

Si tratta di due aspetti difficili da scindere e molto spinosi per la complessa realtà dell’Una e degli altri.

Da un lato, la Chiesa-istituzione e, diciamolo, le sue scelte in ambito di arte sacra. Sono sotto gli occhi di tutti gli edifici considerabili chiese solo per la loro dedicazione, ma che di sacro e di chiesa non hanno nulla. Chiunque sfogli i nuovi Lezionari si farà una chiara idea delle preferenze in ambito di arte sacra. Ma la Chiesa non riconosce in sé nessuno stile artistico in cui autorappresentarsi e ciò permette che in essa convivano, come in un grande minestrone, tendenze non solo diverse, ma anche antitetiche. Dal classicismo anche baroccheggiante, all’informale, all’icona. L’unico comun denominatore sarebbe la sempre vagheggiata Bellezza, che dovrebbe essere splendore del Vero e del Bene, ma che in definitiva non si traduce mai in una form(ul)a sempre valida, costringendoci ad una cangianza di risultati che si adeguano solo ad un oggi quanto mai transitorio. L’esigenza di dover continuamente attualizzare, aggiornare, stare al passo con i tempi è diventata prioritaria.

In tutto ciò, l’icona. L’icona è scomoda, molto. Lo è perché non accetta di convivere facilmente con altro da sé. L’icona si impone, silenziosamente, con le sue forme arcaiche, ma instancabilmente ripetute, per secoli, come segno di eternità. La sua teologia, il suo ruolo liturgico nella Chiesa ortodossa, la sua importanza nella devozione dei fedeli sono inscindibili dalla sua estetica. Non per noi occidentali per lo meno. Ho l’impressione che noi, iconografi latini, siamo molto più “puristi” dei nostri confratelli orientali, fino all’acribia. Eppure è innegabile che non ci sono alternative, fra il classicismo pseudo-raffaellesco, una sciatto modernismo e le performances da biennale. Non vedo altro che possa essere valido per spiritualità, aderenza alle Scritture, semplicità e ricchezza formale. In un contesto come quello odierno l’icona è altro da tutto, e come tale ancora più prossima al sacro. Però essa accetta malvolentieri di coesistere con altre forme di arte “sacra” contemporanea, poichè scendere a compromessi significa compromettere tutta la sua intima coerenza.

Eppure, l’icona si scontra, volente o nolente, con un doloroso scoglio: la sua ininfluenza liturgica. Non solo dell’icona, ma dell’immagine in genere. La totale ininfluenza delle immagini nell’attuale liturgia cattolica vanifica ogni rivendicazione di entrare a far parte della vita della Chiesa. In che altro modo altrimenti essa potrebbe assumere un ruolo, a parte entrare nelle case dei fedeli? L’icona è liturgica per vocazione, estrometterla dallo spazio sacro e dalla liturgia significa snaturarla in ciò che le è proprio. Se è pur vero che la Chiesa latina non ha mai conosciuto quell’integrazione fra immagini e culto propria dell’oriente cristiano, ciò non toglie che fino a 50 anni fa gli edifici religiosi, e gli altari in particolare, erano dotati di numerose immagini sacre.

Infine, gli iconografi. Una conventicola? Una casta, una setta, una corporazione? Nulla di tutto ciò, o non ancora. S’è vociferato di una sorta di albo, o di un modo di associarsi, ma i tempi non sono stati giudicati maturi. Per ora, gli iconografi sono pesci fuor d’acqua. Perfino i migliori maestri, che lavorano molto per le chiese, le parrocchie soprattutto, non hanno nessun certificato, nessun diploma. Non esistono scuole ecclesiali e tantomeno statali di iconografia e forse se ne sente la mancanza, laddove un qualsiasi patriarcato ortodosso ha all’attivo i propri istituti di formazione all’iconografia. Esiste il Pontificio Istituto di un po’ tutto, ma non di iconografia e nemmeno di una generica arte sacra.

Invero, si tratta di un movimento spontaneo, nato davvero dal basso, da tanti laici e semplici religiosi che per strade diverse sono approdati all’iconografia. Nulla nella Chiesa ha favorito lo sviluppo del movimento che conta ormai decine di maestri, centinaia di amatori e migliaia di persone che hanno frequentato almeno un corso base. C’è un servizio di cui non c’è ufficiale richiesta. E meno male, potremmo dire: è un segno concreto della provvidenzialità di tale movimento, come tanti altri germogli che sono poi diventati grandi alberi all’interno dell’orto ecclesiastico. Se perfino il prof. De Marco, per la prima volta a contatto con il mondo dell’iconografia italiana, ha notato l’isolamento in cui lavora l’iconografo, rispetto alle correnti culturali dominanti, è altresì vero che l’icona riempie un vuoto che nell’ambito dell’arte e della Chiesa è ormai intollerabile. Gli iconografi sono le prime persone che reagiscono fattivamente, impegnando vita e mezzi per dare dignità al nostro culto a Dio e dare forma al Suo splendore.

Che posto assegnare loro e all’icona nella Chiesa del XXI secolo? Quello di una tolleranza che li affianchi alle altre correnti artistiche, utilizzate di volta in volta a libera scelta, sciogliendola nel relativismo? Quella di un riconoscimento ufficiale che la consideri espressione privilegiata della Chiesa? O, al contrario, un suo accantonamento che la marginalizzi, come un fenomeno alieno dalla realtà, dalla storia, dalla contemporaneità? La questione non ha ovviamente risposta.

Ma una cosa è certa: la presenza dell’icona nel cattolicesimo del 2000 è un segno profetico (mi si perdoni tale parola, abusatissima in questo tempo post-conciliare): da essa, qualunque saranno i suoi sviluppi, non si potrà che prendere lezione su cosa debba essere la vera arte sacra. L’ormai afasica arte contemporanea potrà esserne rinnovata, forse in un modo ancora più radicale di quanto l’irruzione dell’arte bizantina nell’Italia del XIII secolo abbia provocato non solo nello stile, ma nel modo stesso di concepire l’immagine sacra.