Una cattedrale, due opere a confronto (seconda parte)

La cappella Maria Madre della Chiesa nella cattedrale di Terni.

Il  commento di don Fabio Leonardis alla decorazione della cappella si sofferma su un confronto fra i presupposti e gli sviluppi dell’arte sacra in Oriente e in Occidente.

L’emozione che si prova a entrare in una cappella completamente rivestita di colori è pari solo a quella delle rare chiese medioevali che hanno conservato la loro decorazione originaria. L’effetto è avvolgente, grazie anche al tono dominante del blu. Si tratta di un capolavoro, senza mezzi termini, e ringraziamo don Fabio per tale scelta, in questo caso indiscutibilmente felice. A bel leggere il commento, tuttavia, appare evidente che l’intento con cui sono state fatte realizzare le due opere della cattedrale, è identico.

L’esposizione quasi manualistica della concezione dell’icona nell’oriente cristiano, che sembrerebbe preludere a una comprensione approfondita del valore dell’immagine sacra e del ruolo dell’iconografo, viene poi caldamente smentita dall’affermazione: non c’è icona che possa uguagliare in bellezza l’arte di Raffaello o del Beato Angelico proprio come soggetti di rivelazione del mistero dell’incarnazione del Verbo. Questa frase non ha senso, poichè in base a nessun principio si può dire che un’arte è “più bella” di un’altra. Non credo che la verosimiglianza naturalistica (prospettiva, volume, sfumato) sia una condizione determinante nell’affermazione dell’Incarnazione del Verbo, anzi: l’antropomorfismo bizantino trasfigura l’uomo spiritualizzando anche la carne; il naturalismo, al contrario, eclissa lo spirito nella materia. Anche il credere che l’arte bizantina sia fissa, immutabile nei secoli, sempre uguale a sè stessa, è un pregiudizio che ci portiamo dietro da secoli e che è ora di sfatare, poichè alla costanza dell’uso e della teologia di base dell’icona, corrisponde una grande varietà di stili che si sono susseguiti nel tempo e in cui si collocano anche i nostri artisti russi, i quali manifestano una  libertà compositiva, pur nel solco della viva tradizione. Essa non viene rinnegata, non viene sentita come un giogo di schemi obbligati, ma come una grammatica con cui scrivere liberamente, ma correttamente. Peraltro, la supposta innovazione si rifà a stili artistici vecchi ormai di 100 anni. Mi lascia molto perplesso, pertanto, l’aver invitato  i due artisti russi solo perchè dimostrano un’apparente innovazione dell’iconografia. Significa che altri valenti artisti, ma che usano gli stessi schemi in modo più tradizionale, non sarebbero stati chiamati. Il futuro dell’arte bizantina non è nel dialogo con forme d’arte estranee a sè stessa ma, fedele alla sua tradizione, sta nella fedeltà ad un’ispirazione che trascende infinitamente le possibilità del singolo. Ispirazione che è frutto dell’esperienza spirituale della Chiesa, maturata nei secoli, accanto alla preghiera e alla liturgia.

Ciò contrasta ampiamente con la concezione di un artista demiurgo, una specie di pontefice, di profeta ispirato direttamente da Dio, concezione romatica e ottocentesca i cui strascichi non cessano di provocare danni all’arte sacra, sottoposta all’arbitrio dei singoli “geni”. In ciò si rivela tutta la sudditanza della Chiesa nei confronti degli artisti, pronta ad accoglierne ogni linguaggio, incapace di distinguere fra ciò che è opportuno e che davvero esprime la Fede, e ciò che non lo è, incapace di indicare le forme in cui l’arte diventa Vangelo, succube di ogni corrente che abbia l’apparenza di novità. Per questo l’arte “sacra” contemporanea non parla di Dio, o meglio, non permette a Dio di parlare. La collaborazione degli artisti, così auspicata come voce in capitolo nell’elaborazione dell’arte sacra, in verità tende a subordinare l’autentica ispirazione cristiana a favore di un individualismo esasperato, di una visione soggettiva e parziale.  Gli artigiani anonimi, guidati da una gerarchia illuminata, hanno creato Monreale e  la Sainte Chapelle. I grandi demiurghi, spesso nemmeno cristiani, creano cubi e chiocciole. Se altrove ho espresso la possibilità dell’uomo di esprimere il sacro, in nome de una capacità creativa affine a quella divina, ciò è possibile attraverso una grande obbedienza e umiltà di fronte al Mistero. La libertà dell’artista è la stessa libertà di cui gode l’uomo, e non consiste nel fare ciò che si vuole, come affermazione del proprio ego, ma eclissando sè stessi perchè Dio stesso dipinga, progetti, componga per mezzo dell’artista. Non sarà un caso se viene usato il termine ispirazione sia per la compilazione delle Sacre Scritture che per la creazione artistica.

Se il murale di Cinalli rappresenta una grande allegoria, che presenta le Redenzione del mondo attraverso un sistema intellettualistico, non così immediatamente comprensibile di primo impatto poichè il linguaggio usato dall’artista è schiettamente personale e le idee note solo ai committenti, le scene della vita della Vergine, ben comprensibili a chiunque abbia dimestichezza con l’iconografia, sono di natura simbolica, poichè la composizione, i colori, i gesti delle figure fanno sì che la pittura riveli il valore eterno dell’evento storico rappresentato, ce lo renda presente  per farci partecipi della salvezza che in essi s’è rivelata. Il simbolo, al contrario dell’allegoria, partecipa di ciò che comunica, ed è di natura intuitiva e oggettiva. Così, se il murale lascia spiazzati, scossi, turbati e con un senso angoscioso di inquietudine, la visione delle pitture “neo-bizantine” rinfranca per l’armonia e l’eleganza, la semplicità e la maestria, facendoci pregustare un po’ di quella Bellezza ineffabile che siamo portati a desiderare. Provocazione e concettualismo contro epifania.

Infine, vorrei sottolineare l’idea di fondo che si legge tra le righe, il pensiero, cioè, che le cose DEBBANO cambiare, che l’arte e la liturgia debbano modificarsi nel tempo adattandosi ai contesti sempre diversi. Lo sbandierare con orgoglio la cangianza artistica e liturgica del cattolicesimo (quella liturgica, per altro, solo negli ultimi 40 anni…ma sta compensando bene!) in confronto all’immobilismo mummificato degli ortodossi è un chiaro segno di quale considerazione si abbia della Tradizione della Chiesa. Ed è un’ansia del nuovo così in voga, in questo tempo post-conciliare, cui, a quanto pare, debbono sottostare anche coloro che il Concilio non l’hanno avuto.